Il termine alchimia proviene dall’arabo – cui si deve il prefisso al – per indicare il nome di un reagente per la trasformazione dei metalli, detto pietra filosofale. A sua volta il nome arabo di questo reagente sembra derivare – attraverso il siriaco kimiya – dalla tarda voce greca ??????; oppure dalla radice greca antica cheein, nel significato di versare; oppure dal vocabolo greco chyma, traducibile in fusione.
Il termine kimiya potrebbe anche collegarsi al verbo egizio km, nel senso di portare a compimento; oppure a chen, che significa nero. Difatti gli Egizi chiamavano la valle del Nilo Kemi – terra nera – per il colore del limo umido del fiume, in contrasto con la terra rossa e secca del deserto.
Allora la parola alchimia potrebbe avere questo significato: la dottrina e la pratica che viene dalla terra nera di Egitto. D’altra parte alcuni termini di laboratorio sembrano derivare dall’ebraico.
Ad esempio athanor indica il forno alchemico e deriva dalla parola ebraica tanur, che significa fornace o luce della materia, perché composta con la radice ur, dal significato di luce o fuoco.
Queste diverse ipotesi semantiche fanno capire che l’alchimia occidentale ha un’origine geografica molto vasta. Essa può collegarsi all’Egitto e alla confinante Mesopotamia del I millennio a. C.; poi, fino al VI secolo d. C., al bacino mediterraneo del mondo greco ed ebraico alessandrino; infine all’area dell’espansionismo arabo, che nel Medio Evo dalla Spagna trasmette l’alchimia a tutta l’Europa.
Anche se ai suoi tempi già esisteva un retroterra culturale e operativo, può dirsi antesignano dell’Arte il greco Bole di Mende, vissuto tra il II ed III secolo a. C., autore dei primi testi scritti, che sembrano semplici ricette di tipo artigianale. Ma esse sono sostanzialmente magiche e mescolano sostanze minerali o vegetali conosciute con ingredienti misteriosi, simbolici.
Diversi sono i fattori che determinano, in un remoto passato, questo retroterra operativo: in primo luogo la venerazione arcaica di determinate pietre e rocce, simboli per la loro durezza e consistenza della permanenza dello spirito al suo interno, considerate centri di energia da utilizzare; in secondo luogo la nascita di una metallurgia sacra e di altre tecniche rituali, connesse alla lavorazione di metalli, vetri, profumi, tinture e medicamenti. Queste conoscenze venivano tramandate di padre in figlio, nel segreto di ristrette corporazioni, e rappresentano in embrione le future società iniziatiche.
La metallurgia comincia con l’estrazione e la lavorazione dei metalli trovati sulla superficie della terra – soprattutto rame – raggrumati dal fuoco delle colate laviche dei vulcani; oppure caduti dal cielo con le meteoriti, ricche di materiale ferroso. Se il rame generato dalle viscere dei vulcani è ritenuto un dono della grande madre terra, il ferro siderale è ritenuto un dono delle divinità del cielo e del sole; quindi i relativi manufatti possono essere realizzati solo da sacerdoti o maghi autorizzati dalle stesse divinità.
In Egitto i fabbri lavorano sotto la supervisione di alcuni collegi sacerdotali, che esercitano il culto del dio artefice Ptah o del dio mago Thoth, conoscitore delle arti e della scienza segreta della mummificazione dei corpi. Spesso, nella società antica, ma anche nel medio evo cristiano, il fabbro che lavora col fuoco della fucina assume connotati ambigui e temuti, quasi diabolici, che spesso lo spingono ai margini della collettività.
Nel tempio egizio di Heliopolis si forma la concezione base della futura pratica alchemica: l’unità divina nella pluralità sempre divina delle forme del creato. Si crede che tutta la materia e quindi anche i metalli – le fluorescenze interne della terra – sia vivente e soggetta al perfezionamento, poiché nella materia e soprattutto nell’uomo il dio si trasforma e si rivela. A ciò si aggiunge, nato con la religione mazdeica nell’Asia Minore, il culto per il principio fuoco, che rinnova la terra ed ogni suo elemento, eliminandone la corruzione.
I primi alchimisti ritengono che il lavoro iniziale di trasmutazione sia indirizzato dal pianeta Mercurio, associato all’argento vivo, il solvente per antonomasia. Difatti nella produzione di coloranti, di profumi e medicamenti, si segue il metodo di prima dissolvere e poi solidificare le materie prime; mentre nella oreficeria il mercurio scioglie oro ed argento, formando con essi amalgami liquidi.
La trasmutazione alchemica pertanto imita per analogia la lavorazione artigianale, che separa dalla terra l’oro e l’argento col mercurio; poi allontana col fuoco lo stesso mercurio, ottenendo oro ed argento purissimi, mondati da commistioni con altri metalli. In pratica si afferma la convinzione che l’alchimia sia l’arte di distruggere i composti che la natura ha formato in maniera imperfetta e di migliorarne la natura e le proprietà transitorie, modificandone i tempi indefiniti di evoluzione.
Negli ultimi quattro secoli a. C., ad Alessandria di Egitto, sorge un polo culturale internazionale, un crogiolo straordinario di correnti filosofiche neoplatoniche e neo pitagoriche, di ricerche scientifiche, di movimenti religiosi gnostici, pagani, cristiani ed ebraici, che completano la formazione del pensiero alchemico.
Nell’Egitto ellenistico si sviluppano le dottrine e pratiche di alchimia spirituale, perché da uno studio utilitaristico dei fenomeni fisici chimici dei metalli e della materia si passa ad uno studio metafisico per via simbolica, supportato dalle già indicate concezioni magiche e religiose.
Queste diverse ipotesi semantiche fanno capire che l’alchimia occidentale ha un’origine geografica molto vasta. Essa può collegarsi all’Egitto e alla confinante Mesopotamia del I millennio a. C.; poi, fino al VI secolo d. C., al bacino mediterraneo del mondo greco ed ebraico alessandrino; infine all’area dell’espansionismo arabo, che nel Medio Evo dalla Spagna trasmette l’alchimia a tutta l’Europa.
Anche se ai suoi tempi già esisteva un retroterra culturale e operativo, può dirsi antesignano dell’Arte il greco Bole di Mende, vissuto tra il II ed III secolo a. C., autore dei primi testi scritti, che sembrano semplici ricette di tipo artigianale. Ma esse sono sostanzialmente magiche e mescolano sostanze minerali o vegetali conosciute con ingredienti misteriosi, simbolici.
Diversi sono i fattori che determinano, in un remoto passato, questo retroterra operativo: in primo luogo la venerazione arcaica di determinate pietre e rocce, simboli per la loro durezza e consistenza della permanenza dello spirito al suo interno, considerate centri di energia da utilizzare; in secondo luogo la nascita di una metallurgia sacra e di altre tecniche rituali, connesse alla lavorazione di metalli, vetri, profumi, tinture e medicamenti. Queste conoscenze venivano tramandate di padre in figlio, nel segreto di ristrette corporazioni, e rappresentano in embrione le future società iniziatiche.
La metallurgia comincia con l’estrazione e la lavorazione dei metalli trovati sulla superficie della terra – soprattutto rame – raggrumati dal fuoco delle colate laviche dei vulcani; oppure caduti dal cielo con le meteoriti, ricche di materiale ferroso. Se il rame generato dalle viscere dei vulcani è ritenuto un dono della grande madre terra, il ferro siderale è ritenuto un dono delle divinità del cielo e del sole; quindi i relativi manufatti possono essere realizzati solo da sacerdoti o maghi autorizzati dalle stesse divinità.
In Egitto i fabbri lavorano sotto la supervisione di alcuni collegi sacerdotali, che esercitano il culto del dio artefice Ptah o del dio mago Thoth, conoscitore delle arti e della scienza segreta della mummificazione dei corpi. Spesso, nella società antica, ma anche nel medio evo cristiano, il fabbro che lavora col fuoco della fucina assume connotati ambigui e temuti, quasi diabolici, che spesso lo spingono ai margini della collettività.
Nel tempio egizio di Heliopolis si forma la concezione base della futura pratica alchemica: l’unità divina nella pluralità sempre divina delle forme del creato. Si crede che tutta la materia e quindi anche i metalli – le fluorescenze interne della terra – sia vivente e soggetta al perfezionamento, poiché nella materia e soprattutto nell’uomo il dio si trasforma e si rivela. A ciò si aggiunge, nato con la religione mazdeica nell’Asia Minore, il culto per il principio fuoco, che rinnova la terra ed ogni suo elemento, eliminandone la corruzione.
I primi alchimisti ritengono che il lavoro iniziale di trasmutazione sia indirizzato dal pianeta Mercurio, associato all’argento vivo, il solvente per antonomasia. Difatti nella produzione di coloranti, di profumi e medicamenti, si segue il metodo di prima dissolvere e poi solidificare le materie prime; mentre nella oreficeria il mercurio scioglie oro ed argento, formando con essi amalgami liquidi.
La trasmutazione alchemica pertanto imita per analogia la lavorazione artigianale, che separa dalla terra l’oro e l’argento col mercurio; poi allontana col fuoco lo stesso mercurio, ottenendo oro ed argento purissimi, mondati da commistioni con altri metalli. In pratica si afferma la convinzione che l’alchimia sia l’arte di distruggere i composti che la natura ha formato in maniera imperfetta e di migliorarne la natura e le proprietà transitorie, modificandone i tempi indefiniti di evoluzione.
Negli ultimi quattro secoli a. C., ad Alessandria di Egitto, sorge un polo culturale internazionale, un crogiolo straordinario di correnti filosofiche neoplatoniche e neo pitagoriche, di ricerche scientifiche, di movimenti religiosi gnostici, pagani, cristiani ed ebraici, che completano la formazione del pensiero alchemico.
Nell’Egitto ellenistico si sviluppano le dottrine e pratiche di alchimia spirituale, perché da uno studio utilitaristico dei fenomeni fisici chimici dei metalli e della materia si passa ad uno studio metafisico per via simbolica, supportato dalle già indicate concezioni magiche e religiose.
Lo studio è favorito anche dall’apporto della filosofia greca del VII-VI secolo a. C. I filosofi presocratici sostengono l’esistenza di una sostanza unica ed originaria – detta archè – che si sviluppa e si diversifica tramite un conflitto costante di opposti, tenuti insieme da una più potente sintesi. Alcune di queste forze opposte, il cui contrasto fa muovere l’universo e intuite dai filosofi dell’antichità, ora sono chiamate dalla scienza moderna forza nucleare debole e forte, elettricità e magnetismo, gravità ed antigravità.
Anassimandro pensa che il principio che unifica la realtà, che lega tutti gli esseri e le cose, sia costituito dall’apeiron, un principio illimitato e indeterminato. Questo è un insieme sempre presente di unità e molteplicità che si implicano reciprocamente; concetto codesto che è assai simile a quello della prima materia universale degli alchimisti, ovvero un campo infinito di creatività, che dalla scienza moderna è ipotizzato come il campo unificato delle quattro forze fondamentali dell’universo, che ne determinano tutti i fenomeni visibili: il campo unificato della forza di gravità, elettromagnetuca, nucleare debole e nucleare forte.
Dopo questi primi pensatori emerge la figura di Eraclito – VI-V secolo a. C. – che associa l’archè al fuoco. Esso è il principio che sta alla radice di tutte le cose, l’elemento primo della trasformazione, che poi dagli alchimisti sarà chiamato fuoco di natura. Eraclito concepisce un archetipo in cui tutto scorre; tutto va e viene incessantemente; tutto parte dal fuoco e ritorna al fuoco.
Anassimandro pensa che il principio che unifica la realtà, che lega tutti gli esseri e le cose, sia costituito dall’apeiron, un principio illimitato e indeterminato. Questo è un insieme sempre presente di unità e molteplicità che si implicano reciprocamente; concetto codesto che è assai simile a quello della prima materia universale degli alchimisti, ovvero un campo infinito di creatività, che dalla scienza moderna è ipotizzato come il campo unificato delle quattro forze fondamentali dell’universo, che ne determinano tutti i fenomeni visibili: il campo unificato della forza di gravità, elettromagnetuca, nucleare debole e nucleare forte.
Dopo questi primi pensatori emerge la figura di Eraclito – VI-V secolo a. C. – che associa l’archè al fuoco. Esso è il principio che sta alla radice di tutte le cose, l’elemento primo della trasformazione, che poi dagli alchimisti sarà chiamato fuoco di natura. Eraclito concepisce un archetipo in cui tutto scorre; tutto va e viene incessantemente; tutto parte dal fuoco e ritorna al fuoco.
Questo movimento è prodotto dal conflitto di qualità contrarie, ma dietro questo conflitto si cela una profonda armonia, l’intelligenza universale del Principio, chiamata anche Logos e successivamente dagli alchimisti Mercurio.
Al pensiero di Parmenide – V secolo a. C. – che identifica il principio in un ente assoluto e immutabile – ciò che è è, e non può essere niente altro che se stesso – gli alchimisti associano il concetto del divenire di Eraclito, concependo la realtà come l’unione inscindibile di un immobile principio logico e di una incessante trasformazione caotica: tale insieme è la struttura interiore ed esteriore della natura.
Pitagora individua tale struttura nei numeri, in un ordine misurabile e geometrico; ritiene che i processi invisibili dell’esistenza siano supportati da regole matematiche, da ritmi analoghi alla successione delle note, alla scala degli intervalli musicali e cromatici, nel rispetto di precisi rapporti di proporzione. Per Pitagora esiste non solo una matematica quantitativa, ma soprattutto una qualitativa, simbolica; afferma che il moto interno della natura sia l’espressione del contrasto tra numeri dispari – maschili, determinati, positivi – e numeri pari – femminili, illimitati, negativi -.
Pitagora è il precursore dell’armonica e delle conoscenze cabalistiche; sostiene che il contrasto tra numeri dispari e pari tende ad una sintesi metafisica, rappresentata dall’Uno, la non dualità; egli insegna che il filosofo deve purificarsi dalle tendenze duali, predisporre l’intelletto alla visione delle armonie cosmiche, risultanti dalla lotta e dall’integrazione dei contrari, contemplando solo l’unità suprema.
Il mago e filosofo Empedocle afferma che vi è vita dove vi è contrasto e che tale contrasto è determinato da due forze cosmiche antagoniste, l’una che unisce e l’altra che separa. Per Empedocle la vita è un equilibrio precario di quattro elementi, le radici fondamentali, eterne, immutabili e indistruttibili di tutte le cose: terra, acqua, aria e fuoco; mentre la morte deriva da una preponderanza di una delle due forze antagoniste, perché ciò produce il ristagno o la dispersione degli elementi vitali. Questi quattro elementi sono gli stati della prima materia, che si struttura e si trasforma continuamente nei vari piani dell’esistenza per effetto del contrasto fra le relative quattro qualità: secco/umido e caldo/freddo.
Da tale concezione deriva la medicina classica dei quattro umori, dove la malattia deriva da un eccesso o da una carenza di secco o di umido. Questi quattro elementi o radici dell’essere rimangono sempre della stessa qualità, inalterati; mentre è l’aumento o la diminuzione della loro quantità nelle cose a determinare tutte le trasformazioni naturali.
Democrito afferma che la materia originaria è formata da atomi invisibili, forme poliedriche di luce – piramidi per il fuoco, esaedri per l’aria, sfere per l’acqua e cubi per la terra – che si muovono nell’etere e per effetto di vortici si aggregano e si combinano fra loro. Analogamente la meccanica quantistica afferma che le forze che fanno muovere il cosmo sono il frutto di uno scambio di particelle, che hanno il compito di trasportarne l’azione: il gravitone per la gravità o la terra; il fotone per l’elettromagnetismo o l’acqua; i bosoni X e Z per la forza debole o l’aria; il gluone per quella forte o il fuoco.
Infine, nell’epoca alessandrina, è la filosofia neoplatonica a fornire le categorie di pensiero che danno una fisionomia definitiva all’alchimia; mentre la pratica di laboratorio segue i canoni della filosofia aristotelica, portati al massimo grado di approfondimento dalla sperimentazione degli alchimisti arabi. Nel corso dei secoli e fino ai giorni nostri, è alla filosofia neo pitagorica che si sono ispirate molte scuole o ordini iniziatici in tutto l’Occidente.
Nell’alchimia occidentale è fondamentale e costante una tematica, che precedentemente aveva condizionato la cultura, la religione e la società dell’antico Egitto: il problema della morte e di una eventuale sopravvivenza. Pertanto la trasmutazione dei metalli diventa una metafora suggestiva: estrarre dalla miniera umana e rettificare i metalli grezzi, con scorie terrene, segnati dal tempo e corruttibili tramite ossidazione e ruggine; produrre grandi quantità di metallo nobile – l’argento malleabile e riflettente – e poi di metallo perfetto – l’oro inalterabile e di natura eterna, perché non si corrompe con il passare del tempo -.
I testi di alchimia spirituale tuttavia non indugiano in atteggiamenti mistici, in adesioni dogmatiche ad un ideale religioso; abbracciano una ricerca basata su ipotesi plausibili e sull’esperienza diretta.
Al pensiero di Parmenide – V secolo a. C. – che identifica il principio in un ente assoluto e immutabile – ciò che è è, e non può essere niente altro che se stesso – gli alchimisti associano il concetto del divenire di Eraclito, concependo la realtà come l’unione inscindibile di un immobile principio logico e di una incessante trasformazione caotica: tale insieme è la struttura interiore ed esteriore della natura.
Pitagora individua tale struttura nei numeri, in un ordine misurabile e geometrico; ritiene che i processi invisibili dell’esistenza siano supportati da regole matematiche, da ritmi analoghi alla successione delle note, alla scala degli intervalli musicali e cromatici, nel rispetto di precisi rapporti di proporzione. Per Pitagora esiste non solo una matematica quantitativa, ma soprattutto una qualitativa, simbolica; afferma che il moto interno della natura sia l’espressione del contrasto tra numeri dispari – maschili, determinati, positivi – e numeri pari – femminili, illimitati, negativi -.
Pitagora è il precursore dell’armonica e delle conoscenze cabalistiche; sostiene che il contrasto tra numeri dispari e pari tende ad una sintesi metafisica, rappresentata dall’Uno, la non dualità; egli insegna che il filosofo deve purificarsi dalle tendenze duali, predisporre l’intelletto alla visione delle armonie cosmiche, risultanti dalla lotta e dall’integrazione dei contrari, contemplando solo l’unità suprema.
Il mago e filosofo Empedocle afferma che vi è vita dove vi è contrasto e che tale contrasto è determinato da due forze cosmiche antagoniste, l’una che unisce e l’altra che separa. Per Empedocle la vita è un equilibrio precario di quattro elementi, le radici fondamentali, eterne, immutabili e indistruttibili di tutte le cose: terra, acqua, aria e fuoco; mentre la morte deriva da una preponderanza di una delle due forze antagoniste, perché ciò produce il ristagno o la dispersione degli elementi vitali. Questi quattro elementi sono gli stati della prima materia, che si struttura e si trasforma continuamente nei vari piani dell’esistenza per effetto del contrasto fra le relative quattro qualità: secco/umido e caldo/freddo.
Da tale concezione deriva la medicina classica dei quattro umori, dove la malattia deriva da un eccesso o da una carenza di secco o di umido. Questi quattro elementi o radici dell’essere rimangono sempre della stessa qualità, inalterati; mentre è l’aumento o la diminuzione della loro quantità nelle cose a determinare tutte le trasformazioni naturali.
Democrito afferma che la materia originaria è formata da atomi invisibili, forme poliedriche di luce – piramidi per il fuoco, esaedri per l’aria, sfere per l’acqua e cubi per la terra – che si muovono nell’etere e per effetto di vortici si aggregano e si combinano fra loro. Analogamente la meccanica quantistica afferma che le forze che fanno muovere il cosmo sono il frutto di uno scambio di particelle, che hanno il compito di trasportarne l’azione: il gravitone per la gravità o la terra; il fotone per l’elettromagnetismo o l’acqua; i bosoni X e Z per la forza debole o l’aria; il gluone per quella forte o il fuoco.
Infine, nell’epoca alessandrina, è la filosofia neoplatonica a fornire le categorie di pensiero che danno una fisionomia definitiva all’alchimia; mentre la pratica di laboratorio segue i canoni della filosofia aristotelica, portati al massimo grado di approfondimento dalla sperimentazione degli alchimisti arabi. Nel corso dei secoli e fino ai giorni nostri, è alla filosofia neo pitagorica che si sono ispirate molte scuole o ordini iniziatici in tutto l’Occidente.
Nell’alchimia occidentale è fondamentale e costante una tematica, che precedentemente aveva condizionato la cultura, la religione e la società dell’antico Egitto: il problema della morte e di una eventuale sopravvivenza. Pertanto la trasmutazione dei metalli diventa una metafora suggestiva: estrarre dalla miniera umana e rettificare i metalli grezzi, con scorie terrene, segnati dal tempo e corruttibili tramite ossidazione e ruggine; produrre grandi quantità di metallo nobile – l’argento malleabile e riflettente – e poi di metallo perfetto – l’oro inalterabile e di natura eterna, perché non si corrompe con il passare del tempo -.
I testi di alchimia spirituale tuttavia non indugiano in atteggiamenti mistici, in adesioni dogmatiche ad un ideale religioso; abbracciano una ricerca basata su ipotesi plausibili e sull’esperienza diretta.
Tale esperienza è elaborata in un ordine logico, anche se le descrizioni di tali esperienze sono le più svariate, secondo l’interpretazione dell’operatore, il periodo storico o l’area geografica, i metodi utilizzati.
Tratto dal libro:
Il fuoco segreto degli alchimisti
di Giorgio Sangiorgio
Fonte: www.ilconvivio.it
Tratto dal libro:
Il fuoco segreto degli alchimisti
di Giorgio Sangiorgio
Fonte: www.ilconvivio.it