Le disposizioni storiche della Chiesa nei contronti dell'usura.

Folle usuraio, incisione di Albrecht Dürer per il Capitolo 93 del poema di Sebastian Brant Das Narrenschiff del 1494

 

Chiesa cristiana e usura 


Periodo Alto Medievale 


L’atteggiamento che ha avuto la chiesa cristiana nei confronti dell’usura teoricamente è sempre stato piuttosto netto, sicuramente più netto di quello della cultura ebraica, che poneva il divieto entro i confini del solo giudaismo, tra aderenti alla medesima confessione ebraica, ma lo tollerava tranquillamente nei rapporti con gli stranieri di religione pagana (cfr Dt 28,12; 23,20; Es 22,24; Lv 25,35 ss; Sal 15,5; Pr 28,8; Ez 18,13ss; 22,12 ecc.). 

Sappiamo comunque che anche il divieto ebraico restava un lontano ideale, in quanto la Legge in più punti prescriveva dei limiti al creditore nell’esigere pegni (cfr Es 22,25; Am 2,8; Gb 24,3.9; Dt 24,6; 24,10), proprio per non far diventare il povero lo schiavo di un proprio connazionale (cfr Lv 25,39ss; Am 2,6; Ne 5,1-13). 


D’altra parte i tassi praticati da Israele non superavano mai quelli delle civiltà ad essa coeve (p.es. nel codice Hammurabi si arriva fino a 50-70%). 


Nel periodo ellenistico si arrivò (se si esclude l’Egitto dove rimase al 24%) a un tasso ragionevole dell’8-10%. Nel I secolo d.C. un decreto imperiale lo fissò al 12% nelle province d’Asia. 


Nella legislazione giustinianea troviamo i primi “massimali” relativi all’usura su base annua: i senatori non potevano chiedere più del 4%, la maggior parte della popolazione non poteva chiedere più del 6%, gli uomini d’affari non potevano superare l’8%; ma per i prestiti marittimi, ad alto rischio, si poteva giungere sino al 12%. 


Sotto l’imperatore Niceforo (802-811) si proibì ai sudditi di riscuotere interessi: solo lo Stato poteva farlo al 16,66%. Anche Basilio I (867-86) proibì l’usura. 


E’ evidente che con queste misure si tentava di salvare capra e cavoli: da un lato si scoraggiava la partecipazione dell’aristocrazia al mercato dei capitali, dall’altro si permetteva che venissero richiesti interessi superiori al 6% generalizzato, al fine di incoraggiare le spedizioni a rischio. 


Tuttavia nell’XI il tasso ufficiale d’interesse, ch’era andato aumentando progressivamente in base al corso della moneta, arrivò al 5,5% per le persone di alto rango, al 8,33% per la maggior parte della popolazione e al 11,71% per gli uomini d’affari. 


Questo significa che, malgrado la condanna religiosa del prestito ad interesse, gli imperatori bizantini, realisti, non tentarono mai seriamente di proibirlo; piuttosto, scelsero di autorizzarlo per meglio controllarlo. Quanto alla chiesa, essa si limitava a condannare gli ecclesiastici che la praticavano. 


Ostrogorsky afferma che “sebbene l’usura fosse contraria alla moralità medievale, la proibizione di prestare a usura era molto rara a Bisanzio. Le esigenze dell’economia monetaria, molto sviluppata nell’impero, ignoravano i precetti della morale e il prestito a usura era stato in ogni tempo molto diffuso a Bisanzio”(Storia dell’impero bizantino, Einaudi, p. 171). 


Generalmente l’usura si forma quando si è in presenza di un’economia mercantile e di antagonismi sociali. Il fatto che l’usura avesse dei tassi ufficiali regolamentati dallo Stato può far pensare anche al fatto, oltre al mercantilismo e alle classi contrapposte, vi fosse da parte delle istituzioni il tentativo di far valere alcuni valori etico-religiosi volti a impedire che il fenomeno dilagasse. 


Non c’è fonte patristica, latina o greca, che non condanni decisamente il fenomeno dell’usura. La prima condanna la troviamo in Clemente Alessandrino (Paedagogus, 1,10 e Stromata 2,19), ma subito dopo gli fanno eco Tertulliano (Adversus Marcionem, 4,17), Cipriano (Testimoniorum libri III ad Quirinum, 3,48), Commodiano (Instructiones 65), Lattanzio (Institutiones divinae, 6,18), Ilario (Tractatus in Ps XIV 15), Ambrogio (De Off. II,3, De Bono Mortis 12,56, De Nab. 4,15, Epistola 19 e De Tobia 42), Girolamo (In Ez. Commentarii 6,18), Agostino (Ennarationes in Ps. XXXVI, sermo 3,6; 38,86 e De baptismo contra Donatistas 4,9), Leone Magno (Ep. IV e sermo XVII). In particolare Girolamo sosteneva che il divieto dell’usura tra “fratelli (ebrei)” (Dt 23,20) era stato “universalizzato” dai profeti e dal Nuovo Testamento, e tuttavia non si diffonderà mai in occidente un’interpretazione universalistica della parola “fratello”, poiché anche quando si comincerà a parlarne, nei secoli XII e XIII, lo si farà in maniera del tutto astratta e convenzionale, in riferimento ai cattolici-romani sparsi nel mondo, certamente non in riferimento ai cristiani ortodossi né tanto meno ai musulmani, nei confronti dei quali, proprio in quei secoli, sarà durissima la contrapposizione ideologica, politica e militare. 


Per non parlare dei padri greci: Basilio (Homilia II in Ps XIV), Gregorio Nazianzeno (Or. 16,18), Gregorio Nisseno (Ep. ad Letoium, Contra usurarios, Homilia IV in Ecclesiastem), Giovanni Crisostomo (Homilia LVI in Mt, Homilia XVI in Gen, Hom. XIII in 1 Cor, Hom. X in 1 Tess.). E non si devono dimenticare il canone 20 del concilio di Elvira (300), Arles (314), Nicea (325) e Clichy (626). 


Tra i padri latini bisogna spendere una parola per Ambrogio, il quale pur dipendendo da Basilio, se ne discosta su due punti fondamentali (nel suo De Tobia, a cura di M. Giacchero, Genova 1965): 1) accetta che l’usuraio faccia il prestito a condizione che il beneficiario possa disporre del denaro come vuole, possa cioè investirlo, restituendo la somma con gli interessi solo una volta ottenuta una rendita dal proprio investimento; 2) nei confronti dello straniero, nemico di guerra, egli permette che si esiga l’interesse sul debito quando lo straniero non può essere facilmente vinto in guerra o quando lo si potrebbe uccidere senza compiere un delitto, secondo il principio “dov’è il diritto di guerra, lì è anche il diritto di usura”: col che egli poneva un’adesione pressoché letterale, e certamente poco cristiana, al dettato veterotestamentario. Ambrogio non intenderà mai la parola “fratello” in senso universalistico. 


Periodo Basso Medievale 


Nell’età carolingia Rabano Mauro (784-856) proibisce l’usura fra cristiani, siano essi laici o ecclesiastici, ma nei confronti degli infedeli o dei criminali ritiene giusto l’interesse “spirituale” (il pentimento, la fede, la conversione…), come “compenso” per le spese sostenute per la predicazione loro rivolta della parola di dio. 


Coll’inizio delle crociate si comincia a sostenere in Italia che si può chiedere usura ai musulmani, anche se questo avrebbe potuto voler dire per i musulmani impiegare i capitali ricevuti contro gli interessi dei cristiani. D’altra parte durante le crociate l’usura ebbe grande diffusione, tanto che già alla fine del XII sec. gli usurai cristiani erano di molto superiori a quelli di origine ebraica. Tra il Mille e il XIII secolo il tasso annuale che gli ebrei in Francia non devono superare era del 33,5%. Analogamente a Firenze, Milano, Pistoia, Lucca il tasso medio annuo si aggirava sul 30% (in Inghilterra invece andava dal 12 al 33%). 


Anche nell’area bizantina nell’XI secolo si passa ad una scala diversa e più elevata dei tassi usurari: per i senatori il 5,55%, per la gente comune il 8,33%, per gli uomini d’affari l’11,71%, per i prestiti marittimi il 16,66%. I medesimi tassi resteranno in vigore nel corso del XII secolo. Ma Catacolone Cecaumeno, duca di Antiochia caduto in disgrazia, militare e aristocratico, continua a tuonare contro il prestito a interesse. Il vecchio generale approvava soltanto il prestito finalizzato al riscatto dei prigionieri (che tra l’altro era l’unico motivo che giustificasse la vendita di beni ecclesiastici) e condannava tutte le altre forme di prestito: per ricavarne interessi; per ricavarne guadagni illeciti (quindi sono da evitare anche le associazioni d’affari); per guadagnare i favori di una donna; per favorire chi vuole appaltare un posto nell’amministrazione o chi vuole acquistare schiavi o terreni… 


Per tutto il basso Medioevo schiere di teologi e canonisti favorevoli o contrari all’usura si dividevano sulla questione di sapere a chi essa fosse rivolta: infatti, quanti appoggiavano l’idea clericale di un’affermazione temporale della chiesa non avevano dubbi nel ritenerla lecita nei confronti degli stranieri, degli infedeli, dei nemici di guerra e della chiesa romana in generale; quanti invece affrontavano l’argomento in chiave puramente etica, erano in genere contrari a qualunque forma di usura, che veniva paragonata a una sorta di “furto” e a volte persino di “eresia”. 


Tra i seguaci del primo atteggiamento si annoverano: Graziano (1140), Pietro Comestore (m. 1179) e Guglielmo di Auxerre (m. 1230), che giustificavano in qualche modo l’usura praticata dai cristiani nei confronti degli stranieri o dei nemici, dicendo che anche il Vecchio Testamento aveva permesso la stessa cosa agli ebrei, al fine di evitare che la praticassero tra loro; Alessandro di Hales (m. 1249), per il quale non si può riconoscere il diritto di proprietà a chi può essere legittimamente ucciso, per cui l’usura non può essere considerata un furto; papa Alessandro III (1159); Bernardo da Pavia (m. 1213); Uguccione (1188); Giovanni Teutonico (1216); Enrico Bohic (1340). 


Tra i seguaci del secondo atteggiamento troviamo Anselmo d’Aosta (1033 – 1109), Pietro Lombardo (1100-1160) che paragonano l’usura al furto; Pietro Cantore (m. 1197) che accusa principi e prelati cristiani di non avere scrupoli nel servirsi dei prestiti a interesse da parte degli usurai cristiani; Alberto Magno (1193-1280), Tommaso d’Aquino (1225-74), Raimondo da Peñafort (1234), Ostiense (1271) e Guglielmo Durand (1237-96), per i quali l’usura andava proibita anche agli ebrei. 


Quanto ai concili ecclesiastici bisogna dire che mentre il Lateranense II (1139) è ancora fermo nel condannare teoricamente l’usura (l’usuraio cristiano non pentito è indegno dei sacramenti e del funerale religioso), il Lateranense III (1179), costatando che molti cristiani abbandonavano i loro mestieri per diventare usurai, condanna soltanto i veri e propri “professionisti” dell’usura, quelli che campavano facendo questo mestiere, non quindi gli usurai occasionali, mentre il Lateranense IV (1215) pone per la prima volta una netta distinzione tra “usura”, sempre vietata, e “interesse”, lecito entro tassi ragionevoli, impedendo però ai cristiani di commerciare con ebrei usurai. In questo concilio si riprendono termini più in uso nella giurisprudenza romana che in quella alto medievale. 


Il II concilio di Lione (1274) e il concilio di Vienne (1311) ribadiscono la condanna dell’usura, anzi minacciano la scomunica a quei capi di Comuni o di Stati che la tollerano nei loro territori. 


II – Il problema dell’usura ovvero quando l’usura diventa un problema 


Situazione generale 


Le condanne dell’usura cominciano a inasprirsi tra la metà del XII secolo e la metà del XIII. L’usura scoppia praticamente subito dopo il Mille, ma le premesse “ideologiche” non “materiali” per la sua affermazione erano già latenti nell’alto Medioevo, in concomitanza con la costituzione illegale del Sacro Romano Impero, in opposizione a quello del basileus di Costantinopoli, che determinò la corruzione del clero, lo smantellamento delle tradizioni bizantine, la revisione profonda di principi conciliari (il Filioque) e di prassi ecclesiali, sino alla rottura definitiva, con le reciproche scomuniche, del 1054, anticamera dello scatenamento delle crociate anche in funzione anti-ortodossa. 


In questa situazione di lassismo etico e di revisionismo ideologico (cui si cercherà di porre rimedio con l’integralismo politico-religioso della riforma gregoriana), fu facile agli ebrei, soggetti già a molte discriminazioni, approfittare del fatto che la legislazione vigente non colpiva direttamente la loro categoria. Se fino ad allora l’usura non aveva attecchito in misura significativa, era stato semplicemente perché l’economia rurale basata sull’autosussistenza, in una neonata società cristiana, la rendeva assai poco praticabile. Certo, poteva accadere che durante un periodo di carestia, usuraio fosse anche chi non esitava a vendere i beni di prima necessità a prezzi esorbitanti, magari dopo aver tenuto la merce nascosta dolosamente, nell’attesa fiduciosa del rincaro dei prezzi. 


Tuttavia anche dopo la riforma gregoriana la condanna dell’usura si porrà più che altro sul terreno delle enunciazioni teoriche (la proibizione di vendere il tempo o di far generare denaro dal denaro, sterile per definizione, ecc.), cui si riuscirà a dare un seguito pratico solo nei confronti degli ebrei, facilmente individuabili e legalmente poco tutelati. Gli ebrei venivano condannati anche perché erano visti dagli usurai cristiani come dei concorrenti. Non a caso già nel XIII secolo si afferma il principio che l’usura è semplicemente “un peccato contro il giusto prezzo”, quello di mercato, ovvero che è un interesse esagerato, dettato dalla personale cupidigia. 


All’usuraio, che specula sul denaro, si tende sempre più a opporre il mercante, che guadagna legittimamente coi commerci. Si accetta tranquillamente, nel XIII secolo, il fatto che il lavoro (quello ovviamente mercantile) sia a fondamento della ricchezza e si rifiuta l’usura in quanto guadagno senza lavoro. 


L’antisemitismo apparso nei secoli XII-XIII è una conseguenza del fatto che alle contraddizioni del capitalismo commerciale non si sa opporre altra soluzione che quella di criminalizzare singole categorie di persone. Gli ebrei, pur essendo economicamente forti, erano politicamente molto deboli, per cui era molto facile far passare la loro situazione finanziaria come un privilegio ingiustificato. Tant’è che mentre gli usurai cristiani venivano processati in tolleranti tribunali ecclesiastici, quelli ebrei invece erano sottoposti ai più severi giudizi dei tribunali laici. 


I sovrani infatti, che pur ricorrono abbondantemente a prestiti usurari, possono espropriare gli usurai come e quando vogliono, sicuri di non incorrere in sanzioni ecclesiastiche. 


In generale tuttavia la condanna dell’usura, in tutto il basso Medioevo, è più teorica che pratica, anzi forse è tanto più teorica quanto meno è pratica. 


Gli italiani in particolare erano dei grandissimi usurai, i toscani, i vicentini ma soprattutto i lombardi, che vivevano negli attuali Piemonte, Lombardia ed Emilia e che provenivano dai ceti dirigenti dei maggiori Comuni italiani. Costoro erano usi a frequentare i periodici incontri commerciali che dalla seconda metà del XII secolo si tenevano in quei centri della francese Champagne in cui confluiva la produzione francese e fiamminga. E lì cominciarono a praticare non solo il commercio delle mercanzie ma anche quello del denaro, finché ad un certo punto si specializzarono nella sola attività creditizia, che rendeva molto di più. 


All’inizio la loro attività fu resa necessaria dal fatto che esistendo numerosissime monete, occorrevano esperti in grado di cambiarle, assegnando a ciascuna moneta il giusto valore. In seguito, nonostante i divieti canonici, essi si trasformarono in veri e propri usurai, dotati, a differenza degli ebrei, di ampi diritti civili e politici, in quanto cittadini di autonomi Comuni italiani. 


Ed erano usurai legalizzati, in quanto detenevano il monopolio di un’attività permessa dalle autorità pubbliche. L’attività del banco si esplicava principalmente nel prestito su pegno, fissato a scadenza settimanale e di solito prorogato per un anno. I tassi variavano a seconda del cliente e del tipo di pegno e non erano certo bassi, se è vero che in Borgogna nel 1390-91 i lombardi furono costretti dal sovrano Filippo l’Ardito a restituire tutti i pegni, annullando i debiti dei loro clienti. 


I re francesi (p.es. Luigi IX nel 1258 e 1268, ma anche Filippo il Bello nel 1291) spesso li cacciavano dal regno, requisendo tutti i loro beni, ma poi, dietro pagamento di una forte tassa, li riammettevano tranquillamente. E se le tasse erano insostenibili, i lombardi preferivano trasferirsi altrove, sicuri di poter continuare meglio i loro affari. A Treviri, nel 1262, furono addirittura accolti dall’arcivescovo! 


Nella seconda metà del XIII secolo, dopo aver largamente frequentato territori come la Borgogna, l’Alsazia e la Lorena, la valle della Sarre, il Brabante, il Lussemburgo e altri ancora, si insediano stabilmente, sino all’età moderna, nelle Fiandre, uno dei principali centri industriali e commerciali del Nord Europa. Ma bisogna dire che per tutto il ‘300 non c’è regione europea che non abbia conosciuto la frenetica attività degli usurai e cambiatori italiani. 


Le prime serie misure contro questi usurai furono prese con l’istituzione dei Monti di Pietà, agli inizi del ‘500. Ma nelle Fiandre (Paesi Bassi) tali Monti furono istituzionalizzati solo nel 1618, dopo che s’era tentato, invano, di far abbassare i tassi degli usurai lombardi dal 33% al 22%. Qui infatti i lombardi erano diventati consiglieri di conti, ricevitori generali delle finanze pubbliche, abili precettori d’imposte e zecchieri, per non parlare dei titoli nobiliari ch’erano riusciti ad acquistare e a trasmettere alla loro discendenza. 




Non dimentichiamo che le Fiandre furono all’origine della trasformazione dell’Inghilterra da paese feudale a paese capitalistico. 


[Per la stesura di questo paragrafo ci si è avvalsi di un contributo trovato nel seguente sito: www.villaggiomondiale.it. Trattasi di un estratto da una tesi di laurea della dr.ssa Daniela Capone, avente come tiolo “Profili dell’usura e della polemica antiebraica nel Rinascimento. Il mercante di Venezia di Shakespeare“. Le parti utilizzate sono state poste tra parentesi quadre.] 




Il diritto romano in principio stabiliva che colui che aveva contratto prestito era tenuto alla restituzione del tantundem, ossia dell’uguale quantità. https://poliren.wordpress.com/2013/03/05/l-usura-2/

La nuova religione cristiana prese netta posizione contro il prestito ad interesse. Basilio Magno (IV sec.), ad esempio si scagliava in questi termini contro l’usuraio: «Il povero era venuto a cercare un aiuto ed ha trovato un nemico. Cercava una medicina ed ha trovato un veleno. Saresti dovuto venire in soccorso della sua povertà invece ti arricchisci sulla sua miseria (…) I cani quando ricevono qualcosa diventano mansueti; ma l’usuraio quando intasca il suo avere si irrita maggiormente. Infatti non cessa di latrare, chiede sempre di più (…) Non hai ancora preso in mano il denaro che già ti si chiede l’interesse del mese in corso. E questo denaro preso in prestito già genera un altro male ed un altro ancora, e così fino all’infinito» (dalla Omelia sul Salmo XIV).

Tommaso era altrettanto chiaro al riguardo. Se l’usura rappresentava il prezzo per l’uso di una somma di denaro data in prestito, si vende ciò che non esiste poichè l’uso non è distinto dalla cosa. Se invece si esige un guadagno per la somma data in prestito, allora si vende due volte la stessa cosa poichè oltre alla restituzione si esige anche l’interesse.

Il cattolicesimo ha condannato la pratica dell’usura almeno in nove Concili ecumenici. Il Concilio ecumenico Nicea I (anno 325), sotto il pontificato di papa Silvestro I, proibiva tassativamente ai chierici non solo di esercitare attività usuraia, ma perfino di esigere qualsiasi tipo di interesse, anche se legalmente lecito e citava il versetto 5 del Salmo XIV «presta il denaro senza fare usura». Questo divieto conciliare riguardava però soltanto i chierici. Il Concilio ecumenico Laterano II (anno 1139), sotto il pontificato di papa Innocenzo II, ribadiva la condanna della attività usuraia, anche se compiuta secondo il diritto romano antico, poiché tale pratica veniva ritenuta contraria alle leggi divine ed alla Sacra Scrittura. Gli usurai pertanto, sia chierici sia laici, erano da considerarsi infami per tutta la vita e dovevano essere privati della sepoltura cristiana.https://poliren.wordpress.com/2013/03/05/l-usura-2/